Poco più di un’ora e dieci minuti di musica psicotropa per la formazione di Monaco che, nella prima metà del 2017, s'affaccia sul mercato con una nuova produzione intitolata In Her Garden.
Sono in tre e si chiamano Colour Haze, i responsabili dei questo wall of sound sono Stefan Koglek (chitarra e voce), Phlipp Rasthofer (basso) Manfred Merwald (batteria).
Attivi sin dalla metà degli anni '90, hanno dodici album alle spalle, nel 2014 avevano licenziato l'ormai penultimo To The Highest Gods We Know. A partire dal 2004 gli album dei Colour Haze sono stati presi in carico dalla Elektrohasch Records.
Fondono stoner rock e psichedelia con divagazioni, pur sempre contenute, di matrice progressive. Se fosse il vostro primo approccio, ecco le 4 regole di platino per uscire vivi da una loro produzione diventando, ovviamente, fan sfegatati a vita: 1. Armatevi di pazienza, le canzoni sono lunghe e intricate nella struttura, imperniate sulla tecnica impeccabile, o quasi, dei tre. 2. Procuratevi delle ottime cuffie. 3. La potenza non è mai troppa in questi casi, prendete un amplificatore ad alto amperaggio e alzate a volume mostruoso. 4. Un bicchiere di Matusalem vi aiuterà.
Passando alla musica, si va da brani cantati (Black Lily) a strumentali (Magnolia) che fanno da pista per il decollo verticale delle chitarre si avvitano a spirale nelle sezioni centrali. Pensate a una sorta di No Quarter live, sommata a 577 dei Motorpsycho, e avrete una mezza idea di chi avete davanti. Il tutto è ovviamente immerso nel krautrock, roba seria insomma costruita in maniera certosina dalla quasi infallibilità tedesca. Come spesso accade con i loro dischi, bisogna superarne la metà per iniziare a entrare nel labirinto strutturale, arricchito da soluzioni armoniche in pieno stile Colour Haze. Si lasciano scrutare mentre procedono lentamente con take dall’andamento circolare.
In Her Garden è un disco aperto, un invito last minute per tutti quelli che ancora non conoscono questo caleidoscopico mondo. È anche la conferma delle aspettative riposte dai seguaci della prima ora. È pura materia incandescente, a volte ammorbidita da ottimi giri melodici, che cita Jimi Hendrix di Third Stone From The Sun nel rifferama iniziale di Islands, undici minuti di una lisergia “gran riserva”.
Prestando attenzione ai titoli noterete l’utilizzo di nomi di piante, da Black Lily a Magnolia passando per Arbores e Lotus. Questa volta, e non è la prima, decidono di farsi supportare da un quartetto di archi sotto la guida di Mathis Nitschke. Non tutti i passaggi sono imperdibili, alcuni rintracciabili in Labyrinthe appaiono troppo stirati. Stessa sorte, per altri aspetti, tocca a Lotus che non brilla nonostante il contributo degli archi, vicini ai Motorpsycho di It's A Love Cult.
I due minuti per Sdg III, riempitivo acustico con tanto di sitar (nelle sapienti dita di Mario Oberpucher) anticipano l’arrivo delle conclusive Skydancer e Skydance. Altri sedici minuti che rialzano pericolosamente il tiro, dopo l’affanno centrale, riportando In Her Garden su livelli più che buoni.
In Her Garden non è la panacea per ogni male ma è sicuramente un gran disco, necessario e vitale
Articolo del
27/04/2017 -
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