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Drophick Murphys
11 Short Stories of Pain & Glory
2017
Born & Bred Records
di
Lucrezia Ercolani
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Non è sicuramente una scoperta che dall’inizio di questo decennio i Dropkick Murphys abbiano poco da dire. Come altri gruppi punk rock con alcuni decenni alle spalle, anche loro non riescono a trovare una nuova via, nonostante le cornamuse e gli spunti in più che gli potrebbe fornire il loro ascendente “celtic”. Così, il rischio di ripetere all’infinito quelle intuizioni che erano buone quindici anni fa è molto alto. Tuttavia, per gli amanti del genere ascoltare un buon disco punk rock è sempre un’esperienza appagante e divertente.
Purtroppo non è questo il caso di “11 Short Stories of Pain & Glory”. Il disco risulta fiacco, ripetitivo e anche poco sentito da parte degli autori. Laddove il precedente “Signed and Sealed in Blood”, uscito nel 2013, era ancora un album grintoso con degli anthem trascinanti, 11 Short Stories of Pain & Glory sembra più un esercizio obbligato che altro. D’altronde questo è il primo disco che la band registra lontano dalla cara Boston, costante fonte d’ispirazione, il che vorrà dire qualcosa.
Dopo l’intro strumentale, in cui sono già presenti tutti gli elementi del disco - cori da stadio, cornamuse e soprattutto il ritmo inesorabilmente lento - approdiamo a Rebels with a cause. E’ una tipica canzone punk-oi, che parla di giovani ribelli e persi, e del dare loro una mano. Probabilmente il pezzo è ispirato al fondo di beneficenza creato da Ken Casey, bassista e fondatore dei Dropkick. Il Claddagh Fund infatti raccoglie fondi per associazioni che si occupano di recupero dalla tossicodipendenza, sostegno ai minori e ai veterani (quest’ultima categoria dimostra come diversi gruppi punk rock americani abbiano ancora le idee molto confuse sull’attivismo politico e l’impegno sociale).
Sandlot è una canzone nostalgica, il cui ritornello fa “When we were young we had it all/ When we were young we had a ball”. Significativamente, la canzone trasmette un certo pathos ed è tra le più sincere del disco. Arriviamo a Paying my way, uno dei singoli. La canzone parla della vita da lavoratori, uno dei temi cari al gruppo. In questo caso la lentezza riesce ad essere un punto di forza, e il coro è trascinante sopra al ritmo dei tamburi da stadio. I Had a Hat è la cover di una canzone tradizionale irlandese, tutto sommato ben riuscita, l’unica dove i ritmi si alzano un po’. L’altra cover è You’ll never walk alone, storica canzone adottata dalle tifoserie di mezza Europa. E’ senz’altro una strizzata d’occhio ai fan tifosi, una cover facilona che forse proprio per questo non risulta coinvolgente quanto potrebbe esserlo.
“4-15-13” è dedicata alle vittime dell’attentato alla maratona di Boston avvenuto nel 2013. E’ una canzone misurata e rispettosa, sicuramente un momento sentito del disco. A chiudere c’è “Until the next time”, pezzo conviviale poco incisivo che ci dà appuntamento alla prossima volta…speriamo di ritrovarli in salute migliore
Articolo del
24/03/2017 -
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