Otto dischi, qualche defezione importante nella line up, le lodi di Mr. Robert Plant signore indiscusso della voce, la partecipazione a moltissimi festival, i colori sgargianti dei loro abiti, una crescita lenta ma costante e la totale assenza di spocchia fanno dei Tinariwen una band da tenere sotto stretta osservazione.
Oggi arrivano al loro ottavo album intitolato 'Elwan'. Partono in quarta con l’opener Tiwayyen, forte di quel marchio di fabbrica mediorientale per una take che da metà in su cambia marcia sembrando tanto da non sfigurare dentro il progetto 'Unledded' di Page & Plant. Meglio fa la successiva Sastanàqqàm con le sue chitarre elettriche in acido e la ritmica pungente che lascia il posto alla prima ballad, Nizzagh Ijbal, blues ancestrale in acustico con canto sciamanico che, date retta, è pura meraviglia.
I Tinariwen sono un collettivo in continua mutazione, sempre in viaggio per il mondo sono dotati di profondissime radici tali da non fargli il contatto con la propria terra. Quest'attaccamento emerge fortissimo con il passare dei minuti, così pungente da ingannare cervello e sensi. Sembra quasi di poter annusare tutti quei profumi di una terra immensa tanto quanto la sua cultura millenaria (Hayati). L’altro seducente invito del diavolo è imprigionato nelle ossute strutture armoniche di Ittus, un canto liberatorio accompagnato da pochissime note di una sola chitarra, com'è giusto quando ci si presenta dal signore delle mosche. Più leggere, perché sospinte da un vento caldo, arrivano le melodie di Ténéré Tàqqàl, un brano sognante e rilassato in cui il combo mostra l’amalgama che li unisce reggendo bene il peso delle trame pentatoniche e la pressione delle pelli. Sono davvero irresistibili quando decolla la sezione ritmica di Imidiwàn n-àkall-in. Per rintracciare la loro vera essenza basta ascoltare Talyat, il genere assouf emerge chiaramente dall’utilizzo della chitarra martellante come leitmotiv e leader delle armonie che trovano i natali nell’Africa occidentale, e precisamente nella regione great bend vicina a Niger River, fra Timbuktu e Gao.
Il resto lo fanno le percussioni psico-attive, su cui si applicano canti penetranti, mentre il resto degli strumenti aggiunge dettagli intarsiati da chitarre acustiche, tablas e un basso ossessivo (Assàwt). Nànnuflày non ha rivali, partenza lenta, ipnotica nel suo incedere. Poche note della chitarra lasciano intendere che, di lì a breve, il brano s’ispessirà senza più interrompersi per un crescendo esplosivo, e di fatti, così è con l’arrivo della voce di Mark Lanegan, e signori siamo spiacenti ma non ce n’è per nessuno. Più che un semplice ritorno, ci potete investire i vostri risparmi.
Articolo del
16/02/2017 -
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