La morte del loro amico, nonché compagno di viaggio e chitarrista, Piotr Grudzinski e la scelta di rimanere in tre con un comunicato pregno di dolore e rassegnazione non potevano che abbattersi sul nuovo dei Riverside. Band capace di voli pindarici, espanse dilatazioni cosmiche e sezioni così eteree da risultare quasi impalpabili, oggi i Riverside danno alle stampe 'Eye Of The Soundscape', un disco di passaggio fatto anche di riempitivi, una sorta di colonna sonora dell’ultimo travagliato periodo che la band ha dovuto affrontare suo malgrado.
Doppio cd con booklet e una bella cover art, fatto di tredici lunghe take che pescano dal passato proiettandolo verso quello che sarà il nuovo sound, orfano di un personaggio fondamentale per il songwriting. Ambient sperimentale in salsa progressiva sporcato dall’elettronica, questo passaggio dall’altro lato del fiume non delude sebbene non faccia neanche urlare al miracolo. Una sorta di riordinamento per composizioni che finora avevano trovato posto nella sezione bonus, irrobustito da quattro inediti registrati nel 2016.
Quando le tracce sono buone, si vola alti sin dalle prime note di When The River Flows, opener dalla ritmica incalzante in cui s’innestano sezioni centrali più lente, per piano e chitarra a cui si alternano passaggi ambient posti in coda e giocate sulla sottrazione. L'egregio lavoro alle tastiere di Michal Lapaj è in perenne lotta contro le strutture metalliche della progressione chitarristica. La qualità della registrazione e la ricerca ossessiva per le evoluzioni dei suoni, sommata alle fitte trame, danno vita a un disco che tradisce un primo identikit di quello che, da qui in poi, potrebbe essere il suono di questo power trio polacco. Nei momenti in cui la band molla la presa l’ascoltatore è pronto a distrarsi, libero dalla morsa compositiva che perde la sua forza d’attrazione in soprassedibili riempitivi rintracciabili nel trittico Sleepwalker, Shine e Night Session 1 - 2. Il lavoro soffre di più, per durata e qualità (Return), nel secondo cd che risulta più frammentario e non del tutto a fuoco (Heavenland).
Cento minuti, ma ne sarebbero bastati metà, contaminati elettronicamente, strumentali ma non per questo duri e freddi, anzi esattamente l’opposto fatti di chitarre vellutate e avvolgenti a volte così sfuggenti da far sembrare la musica la grande assente del disco. Una sorta di monito posto lì a ricordarci che tutto passa, anche le cose belle, con l’invito ad accettare il cambiamento, consci di non poter ritornare a essere ciò che si era prima di qualunque evento luttuoso (Rapid Eye Movement).
Articolo del
25/11/2016 -
©2002 - 2024 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|