Fin da quando apparvero sulle scene del 1977 londinese, Colin Newman, Graham Lewis, Bruce Gilbert e Robert Gotobed – in breve, Wire – sono stati variamente etichettati come punk, post-punk, new wave, art e math-rock, ma aldilà di semplicistiche definizioni di genere sono stati - e restano tuttora - una delle più influenti band di tutti i tempi. Merito, soprattutto, di quel loro insuperato trittico di fine anni 70: PINK FLAG (1977), CHAIRS MISSING (1978) e 154 (1979), che in questi giorni tornano in circolazione in confezioni deluxe da 2 e 3 Cd comprensivi di demo e rarità, pubblicate dall’etichetta di proprietà del gruppo Pink Flag. Tre ristampe essenziali e, di fatto, “definitive”, che sono alla base di questa corposa chiacchierata con Colin Newman, principale vocalist, songwriter e per molti versi anche “mente” del quartetto.
Finalmente avete dato fondo ai vostri archivi con queste ristampe. Come mai adesso?
Ha a che vedere con il fatto che abbiamo finalmente ottenuto la disponibilità [di tutto il nostro materiale]. Verso la fine del 2010 mi ero accordato con la EMI per ristampare i nostri primi tre album inserendo dei contenuti extra. Poi, però, la EMI è fallita ed è stata venduta alla Warner. Ma a causa della normativa della Commissione Europea sui monopoli, la Warner non poteva tenersi tutto il catalogo della EMI – la EMI fra l’altro era la più grossa etichetta al mondo – e il numero delle major si era ridotta, da tre a due. La Warner si è trovata in una situazione in cui possedeva un catalogo troppo vasto ed è stata costretta a spogliarsi di alcuni asset, cedendoli a qualche etichetta indipendente. E noi – i Wire – siamo una band particolare, perché ce l’abbiamo, un’etichetta tutta nostra [la Pink Flag, n.d.r.]. C’è stata una lunga negoziazione, ma poi siamo riusciti – facendo anche montagne di debiti - ad acquisire i diritti, il che ci dà il vantaggio di ripubblicarli su Pink Flag esattamente come vogliamo noi, con il formato e con i contenuti decisi da noi.
E’ vero che i Wire nacquero come una sorta di “progetto artistico” quando tu e gli altri andavate al Watford College of Art?
Sì e no… Ci fu un progetto del Watford College nel 1976, per cui mettemmo in piedi un gruppo per la fine del semestre, dove c’eravamo io, Bruce [Gilbert], un tizio chiamato George Gill, e qualche altra persona. In seguito, noi tre continuammo a suonare, principalmente nel salotto di casa mia, facendo soprattutto un sacco di rumore, con un amplificatore, e iniziammo a dar vita a un gruppo. All’inizio tutto il materiale veniva scritto da George Gill. Era lui il leader del gruppo. Io ero il cantante, ma era lui che componeva questi brani per chitarra. Secondo me non erano granché buoni, ma comunque si trattava di una band, e io comunque non mi aspettavo che andassimo da nessuna parte. E questo è quanto accadeva nel 1976. Però poi un giorno George si ubriacò tantissimo… Era piuttosto in voga in quei giorni [del punk] andare ai concerti delle altre band e gridargli contro o rompergli le scatole, perché, sai, di base “tutte le altre band erano spazzatura”. E lui decise che odiava così tanto questa band da voler rubare il loro amplificatore. Lui era ubriaco, e scendendo dalle scale di questo pub a Kilburn con l’amplificatore di questo gruppo, cadde di sotto e si fratturò una gamba. Dovette smettere di suonare per tre settimane. Noi tornammo in sala prove senza di lui, e scoprimmo che le sue canzoni suonavamo molto meglio senza che ci fosse lui. Ed è stata la Rivelazione n.1 sui Wire, quando improvvisamente ci siamo resi conto: “Aspetta un attimo, sta succedendo qualcosa di interessante qui”.
Quindi l’avete scaricato?
Sì ma prima c’è stata la volta in cui Graham [Lewis, il bassista, n.d.r] e io andammo a vedere delle band al Roxy [il locale di Covent Garden a Londra che nel 1977 divenne il punto di ritrovo punk per eccellenza, ndr]. Venne con noi anche un mio amico di corso universitario, Tony Lowe, e prima di entrare [al Roxy] ci fermammo a bere nel pub là davanti. E appena ci sedemmo, Tony iniziò a prendersela con George, a dire che era diventato un peso, che George era scarso, che dovevamo mollarlo. Ed è stato un po’ come spingere una porta aperta…Mi ricordo che alla fine di quella conversazione, Graham mi passò le liriche per Lowdown [uno dei brani poi finiti sull’Lp d’esordio dei Wire PINK FLAG, n.d.r.]. Fu la prima canzone che componemmo insieme, e si può dire che iniziammo a comporre Lowdown quella sera. E’ stato un momento importante. Sai, io sono una persona molto pratica, e ho pensato che sarebbe stato un bene se ci fossimo liberati di George. Le sue canzoni erano spazzatura… io ero in grado di comporre musiche migliori, e Graham era in grado di scrivere liriche migliori. E quindi, è a quel punto che abbiamo deciso quale sarebbe stato il futuro della band. E’ così che è andata. Abbiamo iniziato a provare del nuovo materiale… Facemmo un ulteriore concerto insieme a George, all’inizio di febbraio [del 1977] quando uscì dall’ospedale, ma a quel punto lui già sapeva di essere in uscita. Poi verso la fine di febbraio o inizio di marzo, l’abbiamo “licenziato” e abbiamo iniziato a provare senza di lui. E il primo concerto in cui si è potuto dire “questi sono i Wire”, “questa è la stessa band che poi ha fatto PINK FLAG”, l’abbiamo fatto ad aprile del 1977, al Roxy.
E’ vero, come ha scritto Simon Reynolds nel suo saggio sul post-punk, che più che dal punk eravate influenzati dalle “strategie oblique” di Brian Eno?
Mah, non so se le “strategie oblique” mi abbiano davvero influenzato, non ho mai posseduto quel mazzo di carte [ride, n.d.r.], ma io, certo, avevo conosciuto Brian alla Watford Art School. Noi comunque non ci siamo mai davvero considerati una punk band. Il punk era una cosa da 1976, e già nel 1977, be’, non era più così interessante. E certamente non era interessante essere “l’ennesima punk band”. Era meglio essere qualcosa di diverso. Volevamo essere originali. Se prendi la prima canzone che Graham e io abbiamo scritto insieme, Lowdown, non è punk rock. E’ lenta. Invece i pezzi punk sono tutti veloci.
E come foste accolti dal pubblico del Roxy, dato che suonavate musica molto diversa da - per esempio - Johnny Thunders & The Heartbreakers?
Il primo di aprile del 1977 prendemmo parte a una serata chiamata “Roxy Punk Festival” (che fu anche registrata). In cartellone c’erano in tutto cinque band e noi fummo i primi a salire sul palco. Ma non c’era nessuno nel locale! Forse ci saranno state cinque persone… Quindi non è che non piacemmo al pubblico del Roxy: la maggior parte delle persone non ci vide proprio perché non erano ancora arrivate. Però il management del locale, per qualche motivo, pensò che fossimo bravi. Ci richiamarono per la sera successiva e ci fecero salire più in alto in cartellone, quindi la seconda sera suonammo per 20 persone. Ma la verità è che noi non avevamo un pubblico. Ai punk, in generale, non è che piacessimo molto. C’era qualcosa di “sbagliato” in noi. Non avevamo il look giusto, né il sound giusto. Non esprimevamo le opinioni “giuste” su nulla. Eravamo, anzi, piuttosto “anti-punk”, in qualche modo.
Ma alla fine ci riusciste, poi, a conquistare il pubblico del Roxy?
Sì, ma perché vedi, gran parte del “pubblico del Roxy” in realtà era un gruppo di persone che usciva la sera per andare a vedere delle band, e molti erano anche giornalisti. Io mi ricordo di essere andato una sera al Roxy a vedere una band di cui non ricordo il nome; LOW [di David Bowie] era appena uscito, e le persone del pubblico ne stavano parlando animatamente tra loro. Non si trattava di un pubblico esclusivamente punk. Era soprattutto un gruppo di fan della musica. Fra l’altro, le mode cambiano in fretta, e già verso la fine del 1977 ci fu un forte ricambio. Anche se forse fuori da Londra andò in modo diverso.
A fine anno, dopo aver firmato con la EMI, entraste in studio per registrare PINK FLAG con il produttore Mike Thorne, rimasto con voi per tutti e tre i dischi della “trilogia”. E’ possibile affermare che Thorne è stato una sorta di quinto membro dei Wire?
Mah… attenzione, però… Quelle che bisogna sentire sono le registrazioni fatte al Roxy che abbiamo pubblicato qualche anno fa, di entrambe le serate [LIVE AT THE ROXY, LONDON – APRIL 1ST & 2ND 1977 uscito nel 2006, n.d.r.] in cui suonammo tutto il nostro set. Poi abbiamo pubblicato anche un live al Rockpalast [WIRE ON THE BOX del 2004, n.d.r.] della fine del ’78, o inizio del ’79, in cui suonammo cose che poi finirono su 154. Se le senti entrambe ti puoi fare un’idea di come ciò che poi è finito sui dischi fosse già presente nell’esecuzione live della band. Mike ci ha solo insegnato cosa voleva dire stare in una sala di registrazione, come comportarsi e come operare in studio. Ma non ha mai avuto un atteggiamento del tipo: “Voi siete i musicisti e io adesso produrrò la vostra musica”. Non mi fraintendere però: credo che [Mike Thorne] sia stato molto importante per tutto il processo, e che sia stato importantissimo in special modo all’inizio, ma che man mano, con il tempo, sia diventato sempre meno importante. Io ci ho lavorato insieme ancora per un altro album [A-Z, l’album solista del 1980, uscito dopo il primo scioglimento dei Wire, n.d.r.] ma poi ci siamo allontanati perché io volevo provare a fare delle cose differenti, lavorare in un’altra maniera.
Tu sei sempre stato visto come l’anima “pop” dei Wire, mentre Graham Lewis e Bruce Gilbert sono considerati quelli più sperimentali. Quanto c’è di vero in questa semplificazione giornalistica?
E’ una stronzata. Io ho scritto Practice Makes Perfect e Indirect Enquiries. Non è vera questa cosa. E’ più collegata a ciò che abbiamo fatto subito dopo [lo scioglimento], perché Bruce [Gilbert] voleva fare produzioni a basso budget e io non ero interessato. Ma non credo che ci fosse questa distinzione tra di noi.
Ma a te sarebbe piaciuto avere una hit nella Top 10 al tempo dei primi tre album?
Sarebbe stato bello avere una hit negli anni 70, e ce l’abbiamo quasi fatta con Outdoor Miner nel 1979. Sfortunatamente la EMI fece un casino. Mandarono della gente a comprare il singolo nei “chart return shops” [quei negozi certificati le cui vendite facevano fede per la hit parade, n.d.r.]. Era un’abitudine che avevano tutte le case discografiche in quei giorni. La differenza è che la EMI quella volta fu “beccata”. E anche se Outdoor Miner arrivò molto in alto in classifica, dopo che la truffa fu scoperta ci vietarono di esibirci in Tv a Top of the Pops, cosicché il disco subito dopo scomparve. Alla fine, però, credo che sia stato meglio così. Perché se ti capita di avere una hit, e hai solo quella, poi sei condannato a suonarla per tutta la vita. I Wire non hanno mai avuto una hit, pertanto non ci siamo mai trovati nella situazione in cui siamo costretti a suonare certe canzoni nel nostro set. Suoniamo quello che ci piace. Chiaramente vogliamo che la gente sia soddisfatta, quindi suoniamo cose che pensiamo al pubblico possano piacere, ma non siamo incastrati in quel tipo di confezione alla “revival degli anni 70”. E ciò ci dà un sacco di libertà, fondamentalmente.
Ti fa piacere quando le vostre canzoni diventano popolari rifatte da altri, come The 15th dei Fischerspooner o Connection degli Elastica ispirata a Three Girl Rhumba?
Credo che la cover di The 15th fosse davvero buona, sono rimasto sbalordito dal fatto che abbiano avuto una hit, o comunque una hit da discoteca. Quella degli Elastica invece non era proprio una cover, di base hanno preso un sample [da Three Girl Rhumba] e l’hanno usato nella loro canzone. Però, diciamo, non si sono proprio dannati l’anima per fare in modo che la paternità dei Wire fosse accreditata nella maniera più corretta. Loro ne hanno ricavato un sacco di soldi, noi non molti. Perché quella canzone poi fu inserita in un video pubblicitario per le Olimpiadi di Atlanta [del ‘96] che in America passarono in Tv tantissime volte…
I Wire comunque alla fine sono stati accreditati.
Più o meno, diciamo. Le nostre percentuali erano piuttosto basse. E’ una cosa di cui non sono molto contento. Perché è la mia canzone. E’ il mio riff. E gli Elastica erano troppo occupati ad apparire di qua e di là per riconoscere pubblicamente e nella maniera giusta il loro debito nei confronti dei Wire. Perché quello che la gente ricorda [di Connection] è il riff, non la loro canzone, che non ha nulla a che vedere con Three Girl Rhumba. E’ quello il punto: tutti conoscono il riff. E magari sarà anche un riff stupido, ma è il “mio” riff [ride, n.d.r.].
Che ne pensi invece di tutte le band che nel tempo si sono ispirate ai Wire? C’è una lunga lista, dai Fugazi ai Minor Threat fino ad arrivare agli Helmet di Page Hamilton…
Ah ah, sì, Page lo conosco bene… Mi ha detto che quando suonava con Bowie, lui ottenne il posto [di chitarrista] di Bowie perché sapeva suonare la chitarra “alla Wire”. Page è un grande. Abbiamo fatto delle cose insieme in passato per dei festival. Ma poi lo conosco fin dagli anni 80 quando era nella Band Of Susans. E’ un matto [ride, ndr]. Ma penso che ci sia una nuova generazione di band interessata a quello che facevano i Wire, un po’ in tutti nostri periodi. Capita, anche perché ai nostri show vediamo molti ventenni, alcuni dei quali probabilmente suonano in delle band. E’ così. Per quale motivo, succeda, non saprei. Credo che li attiri una certa nostra attitudine nei confronti della musica. Siamo focalizzati unicamente sulla musica e cerchiamo di essere più originali possibile. Non voglio con questo dire che i Wire siano il gruppo più originale che sia mai esistito, ma almeno ci proviamo sempre.
Qualcuno ha detto che i Wire si sono autodistrutti dopo quel primo trio perfetto di album, pubblicando il live, DOCUMENT AND EYEWITNESS, fin troppo sperimentale.
Anche in questo caso, devi guardare agli individui. Se leggi il libro di Wilson Neate [sui Wire] "Read & Burn", dove quella vicenda è molto ben documentata, ognuna delle persone da lui interpellate ha un’opinione differente su ciò che in effetti accadde all’inizio del 1980. Avevamo preso la decisione di non fare più tour e di prenderci un periodo di pausa. Noi avevamo un problema, nel senso che eravamo troppo avanti rispetto ai tempi. Non avevamo più un senso all’interno di un’etichetta major. Noi eravamo, tipicamente, una band che sarebbe dovuta stare su un’etichetta “indie”. Ma non ce ne erano [ancora] di decenti nel 1980. Nel 1982 iniziarono ad esserci. Ma c’è stato un grosso gap tra il 1980 e il 1982. Avevamo un manager che era piuttosto inutile, e inoltre non c’era più concordia tra di noi, non eravamo d’accordo sulla direzione che doveva prendere la band. Eravamo andati con la EMI nel 1977, e alla fine del decennio eravamo ancora lì, a vegetare senza avere un soldo. Non abbiamo guadagnato nulla [dai primi tre dischi], cioè, ci hanno dato degli anticipi, ma poi non ci è stata data nessuna royalty fino al 1990. La EMI a quel punto ci disse che dovevamo registrare un altro album, ma non avevamo soldi, non avevamo nulla con cui vivere. Decidemmo di mettere su un concerto e di registrare quello: una specie di piano ben congegnato … che però è stato autodistruttivo. E stupido. Alcune persone si sono spaventate per quanto ci fossimo spinti “oltre”. Il fatto è che a un certo punto eravamo stati definiti come una delle migliori, se non la migliore band della nostra generazione. E una cosa del genere ti può creare una fortissima pressione. Per quanto mi riguarda, la presi bene, pensai che fosse una manna. Ma gli altri divennero molto nervosi su questa cosa. Vedi, diventare “strani”, suonare musica “avant-garde”, è anche una maniera per essere meno ambiziosi. Diventare sperimentali voleva dire non essere più giudicati rispetto ad altre cose più tipicamente rock o pop. Alla fine, però, [DOCUMENT & EYEWITNESS] è un disco molto intenso, e molto difficile da realizzare. Molto difficile. E’ il secondo disco per difficoltà di realizzazione nella storia dei Wire. Se guardi le “special edition”, alle fotografie nel libro e al look della band nel 1977 rispetto al look nel 1979…è così enormemente differente! Cioè, nel 1977 non sapevamo nemmeno come metterci in posa come una band, sembriamo quattro persone capitate lì per caso. Invece nel 1978, se guardi le foto della band su CHAIRS MISSING sono molto fighe. Nel 1979 è già iniziato ad essere un’altra cosa, ci sono poche foto della band insieme ma molti nostri scatti individuali. Siamo maturati molto in fretta. Però alla fine, nonostante tutto l'impegno e l’attenzione [per i nostri dischi] non avevamo lo stesso un soldo. E quello [dell’Lp DOCUMENT & EYEWITNESS] divenne il punto in cui tutto divenne impossibile.
Ma alla fine qual è il tuo preferito dei tre Lp ristampati?
CHAIRS MISSING. E anche la maggior parte dei membri del gruppo ti direbbero la stessa cosa. La differenza rispetto agli altri è che fu divertentissimo realizzarlo. 154 è stato molto faticoso, e anche con PINK FLAG è stata dura, principalmente per via della nostra inesperienza. Ma so che ci sono tantissime persone che pensano che PINK FLAG sia l’album migliore, e ce ne sono altrettanti che lo pensano di 154. Anzi, c’è gente che pensa che 154 sia l’album migliore che sia mai stato fatto [ride, n.d.r.]
Allora i Wire erano troppo avanti rispetto ai tempi. Oggi sono forse più in linea con il suono dominante. Forse.
Il fatto è che il mondo è un luogo così differente, adesso. Negli anni Settanta, e direi fino alla parte centrale dello scorso decennio, c’era una “timeline” molto chiara e definita nella musica. Anche se non avevi una grande cultura musicale, potevi facilmente capire quando era uscito un disco. A me poteva capitare di sentire un disco che non avevo mai sentito prima, e dire: “be’, sì, posso immaginare che sia uscito nel 1968”. Per dire. E nove volte su dieci avevo ragione. Ma tutto questo, nella seconda parte dello scorso decennio, si è un po’ fermato, perché in qualche modo si è mischiato tutto. Ci sono nuovi dischi che suonano come dei vecchi dischi. In effetti alcuni dischi nuovi suonano anche più come “antichi” dei dischi vecchi. C’è gente che fa dei dischi che hanno un perfetto sound anni 70. Suonano come se fossero stati fatti negli anni 70, ma contengono anche degli elementi nuovi ed originali…. Non si tratta di “pastiche”, sono realizzati davvero molto bene. Ma non sento nulla in giro che mi dà l’idea che sia stato realizzato quest’anno. Non sento nulla che mi faccia dire: “questo è nuovo”. L’ultima cosa nuova che ho sentito, credo che sia stata la drum’n’bass. Cioè, voglio dire, dopo c’è stata la dubstep, tuttavia ha preso moltissimo dalla drum’n’bass. E’ vero che i computer [di ultima generazione] sono potentissimi, ti danno la possibilità di rifinire tutto. Quindi se sento un disco attuale, le produzioni appartengono chiaramente a questo decennio piuttosto che al precedente: i suoni sono più incisivi e più puliti, [il digitale] ti consente di realizzare dei dischi dal suono migliore. Questo è sicuro. Ma “sound migliore” non vuol dire “più originale”. Forse qualcuno arriverà e si inventerà qualcosa, ma non ne sono sicuro.
Con queste ristampe vi siete focalizzati sui primi tre album. Prevedete in seguito di ristampare anche i vostri dischi degli anni 80, che a volte vengono trascurati ma che sono altresì una parte importante del canone dei Wire?
Al momento siamo concentrati su queste ristampe su etichetta Pink Flag. Si è trattato di un grosso investimento e speriamo che le “special edition” riescano a ripagare i loro costi. Perché abbiamo dovuto acquistare i diritti, e non è stato affatto “cheap”. Vedi, per la Pink Flag è diventato un grosso gioco “per adulti”. Non è più, tipo, “facciamo uscire un disco e vediamo che succede”… Questa è una cosa seria.
Ci avete messo dei soldi vostri.
Sì, e abbiamo fatto dei seri debiti che dobbiamo ripagare. Ma certamente, dopo dovremo dare un’occhiata a cosa possiamo fare riguardo alla nostra produzione degli anni 80. Non sono sicuro che dovremmo ristampare [i dischi] in versione integrale. Quei dischi sono più disomogenei… Credo che ci siano modi di guardare a loro in cui si potrebbe tirar fuori delle combinazioni di cose, per renderli più interessanti… Per esempio, abbiamo delle registrazioni dal vivo fatte in multitraccia (che chiaramente dobbiamo mixare) sia dell’epoca di THE IDEAL COPY [1987] che di A BELL IS A CUP [1988]. Probabilmente affronteremo anche quel periodo. Però prima siamo impegnati con la realizzazione del nuovo album dei Wire, che prevediamo di far uscire nel 2020. Stavolta ci sarà un gap più lungo tra il disco precedente e il nuovo. Abbiamo pubblicato tre album in tre anni ed è stato folle. In qualche modo, ho pensato che fosse importante che dessimo vita a un nuovo corpo di opere che relegasse gli anni 80 a un posto di minor importanza. Perché la verità è che i nostri lavori degli anni 80 sono stati piuttosto incoerenti, anche se oggi qualcuno tende a rivalutarli. C’è una statistica interessante su Spotify: risulta che il [nostro] catalogo degli anni 70 ha dieci volte più streaming del nostro catalogo contemporaneo. E il catalogo ex Mute che oggi è posseduto dalla BMG ha un quarto di “stream” rispetto a quello contemporaneo. Quindi si può vedere come il catalogo contemporaneo sia più popolare .. Ed è una buona cosa, perché la Pink Flag è stata creata con due soldi. Ci abbiamo messo un po’ di tempo, ma ora siamo abbastanza grandi per poter pubblicare, per conto nostro, i nostri dischi degli anni 70. Sarà affascinante, vedere che performance di mercato avranno queste ristampe nel corso dei prossimi due anni. E’ una strana situazione, quella in cui ci troviamo. Sono molto interessato a come la gente accoglierà queste ristampe. Mi intriga il fatto che la gente abbia già delle opinioni su come pensano che siano. Ci sono già state delle recensioni in cui qualcuno ha scritto: “PINK FLAG è fantastico, ma tutto il resto è spazzatura”. Ma sono soprattutto interessato a quale sarà il responso delle nuove generazioni. A come la gente accoglierà le “special edition”. Un’altra cosa che non ho menzionato è il box in vinile. Un oggetto molto bello, devo dire.
Quindi già sapete che il prossimo album degli Wire uscirà nel 2020…Che dire? Siete una band davvero molto organizzata.
Sì, perché ho dovuto passare un sacco di tempo a organizzare questa questione [delle ristampe]. E avere una pianificazione è molto importante affinché le cose poi accadano. E’ molto semplice. Sono diversi anni che non andiamo in America. Ma ora dovremmo fare un tour americano a marzo del 2020. La cosa da fare, quindi, sarebbe far uscire il nuovo album all’inizio del 2020. Dovremmo iniziare a registrarlo quest’anno. E’ molto difficile mettere insieme tutti quanti, pienamente concentrati. Ma avverrà.
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I Wire saranno di ritorno in Italia ai primi di ottobre per quattro date:
4 ottobre @ Spazio211, Torino 5 ottobre @ Covo, Bologna 6 ottobre @ Auditorium Cimarosa, Avellino 7 ottobre @ Largo Venue, Roma
Articolo del
11/09/2018 -
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